1886-11-10 – Disastro ferroviario

“Il dì 10 novembre (1886) alla stazione Principe di Genova si era in grande agitazione: si temeva che qualche disgrazia fosse accaduta, perché il treno raccoglitore che doveva giungere poco dopo le ore 6 dalla linea Ventimiglia, non era peranco arrivato e non se ve avea alcuna notizia.

Intanto il capo stazione di Albenga telegrafava all’ispettorato principale di Genova, essendogli pervenuta notizia che il treno era precipitato in un torrente in seguito alla rottura di un ponte, che tutte le persone addette al servizio di questo erano rimaste vittima del disastro; e soggiungeva che si recava immediatamente sul posto per accertarsi del fatto, riservandosi di fornire telegraficamente precise notizie. Ad Albenga tutte le strade erano allagate; l’acqua inondava le botteghe e le case fino al primo piano. Ma altre persone domandavano soccorso. I cavalli e buoi venivano trascinati fino al secondo piano delle case per salvarle dalla spaventosa corrente del Centa, che aveva già inghiottito un disgraziato che non fu abbastanza sollecito a porsi in salvo.

In quanto il treno ferroviario, Ecco come erano andate le cose. Il guardiano della linea fra i caselli numero 80 e 81, quantunque piovesse dirottamente, s’era recato tra le 4.30 e le cinque pom. a sopravvedere il binario per accertarsi che nulla di anormale fosse accaduto, sapendo che doveva transitare a breve il treno raccoglitore 1443. Giunto al passaggio del Vadino, vide che l’acqua aveva inondata la linea, e che il cavalcavia minacciava di crollare. Ma il treno composto di 18 vagoni era già in marcia e si avanzava rapidamente, quando d’un tratto il cavalcavia cadde, con grande frastuono, nella via sottostante. Il guardiano udì il fischio della vaporiera che sbuffando correva verso il precipizio e senza frapporre indugio alzò il fanale che costituisce il segnale di fermata agitando in pari tempo la bandiera e gridando squarciagola ferma ferma!

Il macchinista per mezzo del fischio ordina la chiusura dei freni E diede subito il controvapore, ma ahimé era tardi! Si udì un grande rumore, un forte scricchiolio, uno straordinario cozzare di vagoni: poi più nulla.

Ciò che avvenne è più facile immaginare che descrivere. In quella cupa oscurità prodotta dal cattivo tempo, la locomotiva e il tender erano precipitati da quell’altezza trascinando seco otto vagoni carichi di mercanzie. Il macchinista Gandolfi e il fuochista Arbini, entrambi ammogliati con figli, perdettero miseramente la vita. Il Gandolfi rimase schiacciato tra la locomotiva e il tender; si rinvenne morto colla mano destra sul regolatore, quasi volesse fermare la locomotiva. In quanto al fuochista non se ne sa nulla: si teme sia rimasto sotto il tender e sia morto annegato. Nello stesso treno eravi pur il capo conduttore Eusebio Negro, i due frenatori Pollano e Isvari, tre manovali viaggianti Fransost, Ponzano e Danasìo.

Tutti costoro poterono salvarsi quasi miracolosamente, buttandosi in acqua e aggrappandosi a quanto capitava loro sotto mano per riuscire a salvarsi. Lo stesso accadde al guardiano della linea, trovatosi egli pure, non si sa come, travolto dalla corrente. Intanto sei ponti sono distrutti e per ora è impossibile fare servizio, anche con trasbordo.”

Curiosità:

il mezzo di comunicazione è il telegrafo: perché il telefono avesse diffusione occorrerà attendere ancora un po’. Il telegrafo era dunque il mezzo indispensabile perché la circolazione ferroviaria non dovesse essere “a vista”.

La linea era presidiata dal “guardiano della linea“, che in caso di emergenza doveva fare delle segnalazioni ottiche con lampada e bandiera. Difficilmente invece l’avviso acustico (l’urlo “ferma, ferma!”), probabilmente anch’esso previsto dal protocollo, avrebbe potuto essere udito dal macchinista della vaporiera. I casellanti hanno svolto il loro prezioso compito per decenni, monitorando il regolare svolgimento delle operazioni, presidiando i passaggi a livello e contribuendo in modo sostanziale alla sicurezza del “sistema ferrovia”.

Si parla poi di “treno raccoglitore“: una tipologia che sarebbe sopravvissuta per quasi altri cent’anni, almeno fino agli anni settanta del XX secolo.

Guardando l’immagine, si possono notare sui due carri merce rimasti più o meno interi le torrette dei frenatori. La descrizione parla anche di due frenatori: pochi per la lunghezza del convoglio (18 carri),  a meno che non si tratti di un errore tipografico: più tardi si dice che i carri precipitati erano 8, che sarebbe già più consistente con il numero di frenatori.

(fonte: “La Civiltà Cattolica, Anno Trigesimosettimo“, 1886, pag. 627)

La lapide che ricorda le due persone morte nella tragedia. (Cimitero di Leca)

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Geometra Libero Professionista.


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